A dicembre le nostre biblioteche vi propongono “libri strani”, che dovreste leggere

Stanchi dei soliti libri tutti uguali? Vi presentiamo una selezione di opere che fanno a pezzi ogni regola della narrazione. Storie che si contorcono, si trasformano e giocano con la forma stessa del libro. Romanzi dove non troverete mai certe lettere dell’alfabeto (provate voi a scrivere senza usare mai la lettera “e”!), cataloghi di mobili che nascondono un horror, mappe delle emozioni più assurde che esistono al mondo e racconti che si ripetono ossessivamente come in un loop impazzito. Libri che sono labirinti, enigmi, scatole cinesi. Libri che ti avvertono già dalla prima pagina: “questo non è per te”.

In biblioteca ne abbiamo una bella collezione. Per lettori curiosi, che non hanno paura di perdersi tra le pagine.

HORRORSTOR di Grady Hendrix, Mondadori, 2021 – 264 pagine

Un horror dal design esclusivo, capace di offrire ai lettori il terrore psicologico di cui hanno bisogno nell’elegante confezione che si meritano.

Sta succedendo qualcosa di parecchio strano al superstore di mobili scandinavi Orsk di Cleveland, Ohio. Ogni mattina, al loro arrivo, i dipendenti trovano armadi Kjërring a pezzi, bicchieri Lågniå in frantumi e divani letto Liripip vandalizzati: chiaramente c’è qualcosa che non va. Le vendite sono in calo, le telecamere di sicurezza non rivelano nulla e i gestori del grande magazzino sono nel panico. Per svelare il mistero, cinque giovani dipendenti si offrono volontari per un lungo turno di sorveglianza dal tramonto all’alba e – come vuole la tradizione – si troveranno alle prese con orrori che sfidano l’immaginazione. Horrorstör non è solo la classica storia di una casa infestata che si svolge in un ambiente contemporaneo (intriso di paure che tutti noi conosciamo), ma è anche una satira del consumismo e della natura degradata del lavoro nella nuova economia del XXI secolo. Tutto questo e molto altro troverete in questo libro confezionato sotto forma di un catalogo al dettaglio, completo di illustrazioni di mobili pronti per il montaggio e altri accessori via via sempre più sinistri.

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CASA DI FOGLIE dI Mark Z. Danielewki, 66thand2nd, 2019 – 760 pagine

Un’opera unica e complessa che ha conquistato lo status di cult. Pubblicato per la prima volta nel 2000, per anni introvabile e infine recentemente ristampato, è un esempio di letteratura ergodica, termine che deriva dal greco ergon (lavoro) e hodos (percorso): un testo che richiede al lettore un coinvolgimento fisico e mentale superiore al normale.

Quando la prima edizione di Casa di foglie iniziò a circolare negli Stati Uniti, affiorando a poco a poco su Internet, nessuno avrebbe potuto immaginare il seguito di appassionati che avrebbe raccolto. All’inizio tra i più giovani – musicisti, tatuatori, programmatori, ecologisti, drogati di adrenalina –, poi presso un pubblico sempre più ampio. Finché Stephen King, in una conversazione pubblicata sul «New York Times Magazine», non indicò Casa di foglie come il Moby Dick del genere horror. Un horror letterario che si tramuta in un attacco al concetto stesso di «narrazione». Qualcun altro l’ha definita una storia d’amore scritta da un semiologo, un mosaico narrativo in bilico tra la suspense e un onirico viaggio nel subconscio. O ancora: una bizzarra invenzione à la Pynchon, pervasa dall’ossessione linguistica di Nabokov e mutevole come un borgesiano labirinto dell’irrealtà. Impossibile inquadrare in una formula l’inquietante debutto di Mark Z. Danielewski, o anche solo provare a ricostruirne la trama, punteggiata di citazioni, digressioni erudite, immagini e appendici. La storia ruota intorno a un misterioso manoscritto rinvenuto in un baule dopo la morte del suo estensore, l’anziano Zampanò, e consiste nell’esplorazione di un film di culto girato nella casa stregata di Ash Tree Lane in cui viveva la famiglia del regista, Will Navidson, premio Pulitzer per la fotografia, che finirà per svelare un abisso senza fine, spalancato su una tenebra senziente e ferina, capace di inghiottire chiunque osi disturbarla.

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LA SCOMPARSA di Georges Perec, Guida, 2009 – 328 pagine

Pubblicato nel 1969, è un romanzo unico nel suo genere, basato su un artificio retorico straordinario: è un lipogramma, un testo in cui una lettera dell’alfabeto è deliberatamente omessa. In questo caso, la lettera “e”, la più utilizzata nella lingua francese, è completamente assente, sostituita da sinonimi e soluzioni linguistiche ingegnose.

Immagina di leggere un romanzo intero senza mai trovare una delle vocali più comuni: è questo il folle esperimento di Georges Perec con La scomparsa. L’intero libro è scritto senza utilizzare la lettera “E”. Eppure, la trama non sembra risentirne: un giallo surreale dove il mistero principale non è solo cosa sia successo, ma anche come l’autore sia riuscito a comporre un’opera così originale. La storia segue un gruppo di personaggi che cercano di risolvere la scomparsa di un certo Anton Vowl (gioco di parole geniale, già solo nel nome). Man mano che ci si addentra nella narrazione, si scopre che la “scomparsa” di cui si parla non è solo quella di Vowl, ma anche della lettera stessa, un’assenza che diventa quasi palpabile. Il divertimento per il lettore sta nel cogliere il gioco linguistico, un’impresa straordinaria che sfida le regole della scrittura e fa sorridere per la sua audacia. “La scomparsa” non è solo un giallo, ma anche una celebrazione della creatività e del potere della parola. Un plauso speciale va al traduttore italiano Piero Falchetta, che ha compiuto un’impresa altrettanto incredibile: riscrivere tutto il libro in una lingua diversa mantenendo lo stesso vincolo. Un lavoro di ingegno e passione celebrato con il premio Monselice.

Assolutamente da leggere… se riuscite a farne a meno della “E”!

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ESERCIZI DI STILE di Raymond Queneau, Einaudi, 2014 – 309 pagine

Non una lettura tradizionale, ma una piccola avventura linguistica che stimola il lettore a guardare con occhi nuovi anche le storie più semplici. Un libro intelligente, fresco e sorprendentemente divertente.

Un libro unico nel suo genere, un’esplorazione delle infinite possibilità della lingua. Raymond Queneau parte da una scena ordinaria – un uomo sul bus, un litigio banale, un incontro casuale – e la racconta 99 volte, cambiando ogni volta stile, tono e prospettiva. Il risultato è una vera e propria celebrazione della creatività: la stessa storia diventa ironica, poetica, tecnica, lirica, persino surreale, a seconda del trattamento linguistico scelto. Ogni variazione è un invito a riflettere non solo sulla versatilità del linguaggio, ma anche su come il modo in cui raccontiamo qualcosa influenzi il nostro punto di vista. Leggerlo è come assistere a una dimostrazione di abilità da parte di un virtuoso della parola. Anche se può sembrare un esperimento per addetti ai lavori, in realtà è un libro godibile per chiunque ami la letteratura e sia curioso di scoprire quanto la forma possa arricchire (o trasformare) il contenuto.

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ATLANTE DELLE EMOZIONI UMANE. 156 EMOZIONI CHE HAI PROVATO, CHE NON SAI DI AVER PROVATO, CHE NON PROVERAI MAI di Tiffany Watt Smith, Utet, 2024 – 384 pagine

Di parola in parola veniamo risucchiati nel caleidoscopio di questo libro divertente, colto e curioso, metà enciclopedia e metà atlante, che mentre mappa le differenze affettive tra i popoli ci ricorda che proprio nell’universalità di ciò che proviamo ci scopriamo uguali.

Siamo tutti in grado di riconoscere la differenza tra rabbia e paura, tra desiderio e invidia. Sappiamo distinguere l’affetto dall’amore, il rimpianto dal rimorso, l’euforia dalla felicità. Ma lo spettro delle emozioni umane è ancora più sfumato di così: esistono sensazioni che tutti noi abbiamo provato, stati d’animo molto precisi e inconfondibili, e a cui però spesso non abbiamo saputo dare un nome. Eppure in qualche angolo del mondo, in qualche lingua a noi ignota, esiste una parola che li definisce: per esempio, gli inuit chiamano iktsuarpok il miscuglio di ansia, nervosismo, eccitazione e felicità che prova chi aspetta l’arrivo di ospiti a casa, o la risposta a una mail importante; per i finlandesi, kaukokaipuu è l’inspiegabile nostalgia per un posto dove non siamo mai stati: gli spagnoli chiamano vergüenza ajena l’imbarazzo empatico di chi assiste alle figuracce altrui. Tiffany Watt Smith attraversa storia, antropologia, scienza, arte, letteratura e musica in cerca delle espressioni con cui le culture di tutto il mondo hanno imparato a definire le proprie emozioni, e nel frattempo ci rivela come siano complesse e sorprendenti anche quelle che credevamo di conoscere bene.

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